Franco Varrella, da Urbino a vice Sacchi in Nazionale: “Le società di calcio investono poco sui giovani”
URBINO – In un periodo in cui il calcio italiano fatica a sfornare talenti molto più rispetto al passato, una piccola realtà come l’Urbania ha dato i natali a due giovani promesse: Stefano Sensi e Lorenzo Lucciarini. Ma il ruolo del talent scout è sempre più difficile, anche a causa della poca considerazione nei confronti dei settori giovanili. È quello che ci ha raccontato Franco Varrella, allenatore ed ex calciatore dell’Urbino negli anni ’70, oggi docente presso la Scuola Allenatori Figc di Coverciano. Nel corso della sua carriera ha allenato numerose squadre di serie B e serie C, lanciando giocatori come Luigi Di Biagio e Cristiano Zanetti, diventati poi campioni in serie A. Nella città ducale Varrella ha anche conseguito il diploma con lode all’Isef (oggi Scienze Motorie), prima di sedersi sulla panchina in veste di tecnico.
Quanto è difficile scoprire nuovi talenti e investire su di loro?
“Innanzitutto ci vuole un buon occhio da parte di chi li visiona. Ci sono tanti ragazzi che si approcciano al mondo del calcio e non è facile riuscire a cogliere le potenzialità di questi giovani calciatori. L’allenatore ha molte responsabilità: deve lavorare sulle qualità del giocatore e mettere a frutto le sue abilità motorie. Poi ci vuole una grande forza d’animo del giocatore stesso: è difficile rinunciare al mondo che li circonda e agli amici per dedicarsi interamente all’attività sportiva. Alla base ci sono questi presupposti, altrimenti nessuno nota le loro qualità. Bisogna anche essere fortunati, trovarsi al posto giusto nel momento giusto: quando allenavo il Monza stavamo per mandare a casa un certo Luigi Di Biagio, oggi conosciamo tutti la carriera che ha fatto. I ragazzi hanno bisogno di tempo: quello che può apparire negativo un giorno, può essere totalmente stravolto il giorno dopo. Io penso che se un ragazzo ha la testa sulle spalle e si dedica seriamente al campo va aspettato e non abbandonato, si rischia di perdere un capitale”.
“Innanzitutto ci vuole un buon occhio da parte di chi li visiona. Ci sono tanti ragazzi che si approcciano al mondo del calcio e non è facile riuscire a cogliere le potenzialità di questi giovani calciatori. L’allenatore ha molte responsabilità: deve lavorare sulle qualità del giocatore e mettere a frutto le sue abilità motorie. Poi ci vuole una grande forza d’animo del giocatore stesso: è difficile rinunciare al mondo che li circonda e agli amici per dedicarsi interamente all’attività sportiva. Alla base ci sono questi presupposti, altrimenti nessuno nota le loro qualità. Bisogna anche essere fortunati, trovarsi al posto giusto nel momento giusto: quando allenavo il Monza stavamo per mandare a casa un certo Luigi Di Biagio, oggi conosciamo tutti la carriera che ha fatto. I ragazzi hanno bisogno di tempo: quello che può apparire negativo un giorno, può essere totalmente stravolto il giorno dopo. Io penso che se un ragazzo ha la testa sulle spalle e si dedica seriamente al campo va aspettato e non abbandonato, si rischia di perdere un capitale”.
Il calcio italiano sta vivendo un momento poco felice, l’investimento sui giovani calciatori può incidere su questo fattore?
“I settori giovanili in Italia non forniscono più materia prima come un tempo. Le società investono poco e ci credono ancora meno. Bisogna creare una struttura importante. Questo incide sui campionati ma anche a livello di nazionale. È un problema: l’investimento nei settori giovanili deve essere notevole ed è necessario avere allenatori di qualità. Oggi si tende sempre più a ricercare giocatori stranieri, non si ha il coraggio di puntare sui propri giovani”.
“I settori giovanili in Italia non forniscono più materia prima come un tempo. Le società investono poco e ci credono ancora meno. Bisogna creare una struttura importante. Questo incide sui campionati ma anche a livello di nazionale. È un problema: l’investimento nei settori giovanili deve essere notevole ed è necessario avere allenatori di qualità. Oggi si tende sempre più a ricercare giocatori stranieri, non si ha il coraggio di puntare sui propri giovani”.
Quali possono essere le soluzioni?
“La soluzione è solo una: è necessario che i settori giovanili nazionali diventino maggiormente operativi e migliorino la qualità del loro ‘orticello’. I centri federali devono contribuire alla loro evoluzione. Ovviamente non si può pretendere di risolvere tutto dall’oggi al domani, deve esserci una programmazione di lungo periodo: oltre 10 anni fa la Germania era alla frutta, ma con gli accorgimenti giusti e investimenti importanti sui giovani sono ripartiti. In Italia questo non succede”.
“La soluzione è solo una: è necessario che i settori giovanili nazionali diventino maggiormente operativi e migliorino la qualità del loro ‘orticello’. I centri federali devono contribuire alla loro evoluzione. Ovviamente non si può pretendere di risolvere tutto dall’oggi al domani, deve esserci una programmazione di lungo periodo: oltre 10 anni fa la Germania era alla frutta, ma con gli accorgimenti giusti e investimenti importanti sui giovani sono ripartiti. In Italia questo non succede”.
Cosa pensa di Stefano Sensi, calciatore nato calcisticamente nell’Urbania e oggi a un passo dalla serie A?
“Ho visto giocare Sensi più di una volta, è un giocatore di talento che ha fatto più di quello che ci si aspettasse. Le buone qualità saltano subito all’occhio, bisogna capire se riuscirà a fare il grande salto. È entrato nel mirino di società importanti, ma c’è da dire che in Italia i giovani forti sono talmente pochi che c’è stata molta attenzione mediatica sul ragazzo. È comunque una bella soddisfazione per chi ha cresciuto e lanciato questo giocatore”.
“Ho visto giocare Sensi più di una volta, è un giocatore di talento che ha fatto più di quello che ci si aspettasse. Le buone qualità saltano subito all’occhio, bisogna capire se riuscirà a fare il grande salto. È entrato nel mirino di società importanti, ma c’è da dire che in Italia i giovani forti sono talmente pochi che c’è stata molta attenzione mediatica sul ragazzo. È comunque una bella soddisfazione per chi ha cresciuto e lanciato questo giocatore”.
Nel 1996 è stato il vice di Arrigo Sacchi agli Europei in Inghilterra. Cosa le è rimasto più impresso di quella esperienza?
“Ho colto tanti spunti per migliorarmi come allenatore, sia da Sacchi che dalle altre squadre europee. La cosa che mi ha stupito di più è che all’estero si pongono degli obiettivi che cercano di raggiungere a tutti i costi, vogliono migliorare costantemente. In Italia, purtroppo, ci muoviamo a rilento”.
“Ho colto tanti spunti per migliorarmi come allenatore, sia da Sacchi che dalle altre squadre europee. La cosa che mi ha stupito di più è che all’estero si pongono degli obiettivi che cercano di raggiungere a tutti i costi, vogliono migliorare costantemente. In Italia, purtroppo, ci muoviamo a rilento”.
Quale giocatore l’ha colpita maggiormente durante quegli europei?
“Pavel Nedved. Contro di noi segnò e fece una grande partita. In Italia arrivò grazie a Zeman, ma io lo avevo segnalato al direttore generale del Parma Sogliano. Dopo che lo vide giocare alla Lazio mi rimproverò di non averglielo suggerito prima”.
“Pavel Nedved. Contro di noi segnò e fece una grande partita. In Italia arrivò grazie a Zeman, ma io lo avevo segnalato al direttore generale del Parma Sogliano. Dopo che lo vide giocare alla Lazio mi rimproverò di non averglielo suggerito prima”.
A Urbino ha prima giocato e poi ha studiato. Che ricordo ha di quegli anni?
“Urbino è una città fantastica, l’ho amata e continuerò ad amarla sempre. Quando posso vengo sempre volentieri. In quel periodo venivo da esperienze sportive importanti, ma Urbino non aveva una grande cultura calcistica. I dirigenti volevano vincere ma non ne avevano le potenzialità. La squadra era un ‘feudo’ di Giambartolomei, aveva un grande carisma e nello spogliatoio comandava lui, ancor più del capitano Amaranti”.
“Urbino è una città fantastica, l’ho amata e continuerò ad amarla sempre. Quando posso vengo sempre volentieri. In quel periodo venivo da esperienze sportive importanti, ma Urbino non aveva una grande cultura calcistica. I dirigenti volevano vincere ma non ne avevano le potenzialità. La squadra era un ‘feudo’ di Giambartolomei, aveva un grande carisma e nello spogliatoio comandava lui, ancor più del capitano Amaranti”.
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